Ma il mediawatching, cos’è?

Provo a dare qualche (disordinata) risposta, su come secondo me dovrebbe essere il mediawatching. Innanzitutto devo dire che il termine a me non piace. Mediawatching infatti implica una posizione di contrasto rispetto ai media che mi sembra controproducente. Quello che noi cerchiamo, invece, è un modello differente, una simbiosi tra informazione tradizionale e citizen journalism che faccia bene sia alle persone, sia ai media.

Quindi il primo passo è che la critica tanto per fare, il cercare il pelo nell’uovo a tutti i costi, finisce per essere controproducente. Il vantaggio che invece ci offre la rete è quello della conversazione, della co-costruzione di significati. Il citizen journalist per fare un lavoro utile a tutti dovrebbe, secondo me, porsi non come nemico del giornalista, ma come suo collaboratore, essenzialmente in due modi.

Il primo è quello del cosiddetto reporting diffuso: sappiamo bene come per i media sia impossibile coprire l’intero territorio ed essere sempre sulla notizia. Ma le migliaia di persone con accesso alla rete e la possibilità, la voglia e il tempo di pubblicare contenuti, possono fornire ai media le storie da cui partire per sviluppare la notizia, o aiutarli ad approfondirla arricchendola di tutti quegli aspetti locali che solo chi vive una certa situazione può offrire. Un esempio di reporting diffuso macroscopico è quello che successe con lo tsunami.

L’altro sistema va nella direzione diametralmente opposta, e cioè parte dal medium che fornisce una notizia. In questo caso possiamo parlare più propriamente di media-watching se il lettore offre una rilettura della notizia stessa alla luce delle sue esperienze e della sua visione del mondo, commentando il lavoro del giornalista e quindi fornendogli una nuova visione delle cose dalla quale ripartire per migliorare il suo lavoro.

Va da sé, allora, che per un mediawatching efficiente è necessaria un’apertura da ambo le parti: del giornalista, che non deve vedersi come il depositario di una verità assoluta, ma piuttosto come fondamentale mediatore della realtà, e del pubblico, che non può limitarsi a fare le pulci per dimostrare (a chi poi?) di essere più bravo di chi scrive per professione, ma piuttosto collaborare per costruire la realtà.

Nella presentazione che ho fatto per la mia tesi ho messo uno schema (rielaborato da un testo di Shayne Bowman e Chris Willis) che illustra proprio questa visione simbiotica del mondo dei media. Ve lo metto qui.

Nuova Ecologia dei media

Edito e aggiungo una cosa che mi ha appena passato il mio feed reader: in questo post si parla di una piccola esperienza di quella simbiosi che descrivevo prima. Certo, l’argomento è futile che più non si può. Però rende l’idea.

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